Viaggio nei “mangiari” di una volta. Quando in Garfagnana si ammazzava il maiale

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Una famiglia intorno al suo maiale |
industriosi che non allevasse almeno un maiale per proprio conto. Del suino non si scartava niente e si poteva mantenere e nutrire con due soldi. I resti della cucina, così come il siero ricavato dal formaggio, oppure la frutta andata a male, per non parlare delle bucce di patate o anche della farina di castagne era tutta roba questa che finiva puntualmente nel trogolo del porcile, solitamente situato ai margini della stalla, non esistevano per di più mangimi o coadiuvanti vari, qui era tutto rigorosamente BIO (come si dice oggi…)e infatti venivano fuori certe “bestie” che raggiungevano e spesso superavano i due quintali, tanto è vero che di questo animale si apprezzavano anche le parti grasse e come sottolineava scherzosamente (mica tanto però) il professor Rossi quando osservava che queste prelibate parti sono andate in disuso per far posto a cibi meno calorici che consentono di “mantenere la linea”, considerava poi che i lavori pesanti di una volta sono tramontati, mestieri questi che richiedevano un
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Preparazione di salami |
grande sforzo fisico e un dispendio di energie notevole, compensabile solamente con cibi sostanziosi e nutrienti.
Arrivava poi anche il sospirato giorno dell’uccisione del maiale, una vera festa, un lieto evento con i suoi riti e le sue cadenzate procedure, tant’è che sempre Rossi nel suo articolo cita stigmatizzando con leggiadra ironia un detto di un tempo lontano, assai diffuso che diceva così:
“Tre erano i giorni migliori della vita:quando ci si sposa,quando si ammazza il porco,e quando muore la moglie“(le signore lettrici sono libere di fare tutti gli scongiuri del caso…).
Così ricorda Pietro Campoli alias il “Taton” quei giorni quando veniva il “solenne” momento di sacrificare l’animale…
STOOOP!!!…
“Il maiale veniva ucciso dall’urcino (n.d.r:vocabolo garfagnino, storpiatura di norcino)con un punteruolo di ferro che veniva strofinato (strusciato)sopra la sua punta con uno spicchio di aglio. Quattro o cinque uomini dotati di una certa forza
immobilizzavano il povero maiale a pancia in su, poi l’urcino piantava il punteruolo all’altezza del cuore, se era abile l’animale moriva senza emettere un solo grido, ma se non lo era moriva con urla strazianti (quando ci penso mi sembra di sentirlo). Una volta morto veniva posto sopra una scala a pioli e quindi pelato con acqua bollente, poi scoperti i tendini delle zampe di dietro,vi si passava il “braccagnolo”,un arnese in legno di
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Vecchia foto. Quando si uccideva il maiale |
quercia che aveva il compito di tenere divaricate le zampe, dopodiché mediante una fune veniva issato ed attaccato ad un gancio del soffitto. Quando era appeso mettevamo un recipiente molto capiente sotto la testa del maiale, questi veniva sgolato dall’urcino che poi toglieva dalla carcassa l’osso del petto che sarebbe servito per la cena della sera, accompagnato in tavola con foglie di rapa e polenta di granturco. Una volta aperta la pancia dell’animale, venivano tolte tutte le interiora e recate in fiume dove erano lavate nell’acqua gelida…”
Il “Taton” continua nel suo racconto e poi conclude: “…Ho fatto un grosso sforzo mentale per ricordarmi tutte queste cose, era molto che non ci pensavo. Ora basta andare al supermercato e trovi tutto quello che serve. Però i sapori di una volta non si gustano più”.
A proposito di sapori, era abitudine la sera, una volta immolato il “generoso” animale invitare gli amici più intimi per la “biroldata”. Prima di procedere con la grande scorpacciata tutto era già stato sistemato, lo zampone era già insaccato, la lingua era già salata,la pancetta arrotolata e dalle travi della cucina penzolavano messi ad asciugare,salami ,cotechini e salsicce. Così il professor Rossi descriveva tale spettacolo:
“…pendevano in lunghi festoni, con rocchi
legati ad uguale distanza, sembravano voluttuose collane di corallo”.
Sul fuoco attaccata ad una nera catena che pendeva dal camino gorgogliava una capace caldaia, spesso il camino era talmente grande da permettere alle persone di sedervisi all’interno in apposite sedie e li mettersi a parlare del più e del meno in attesa della cottura dei biroldi che di solito uscivano pronti verso la mezzanotte. Il Rossi parla degli ingredienti di questa prelibatezza e dice che erano:
” Ciccioli non troppo strizzati,sangue e carne di maiale, la maggior parte tratta dalla testa ed il tutto tritato finemente, a questo sostanzioso pastone dovevano essere mischiate alcune droghe come pepe, noce moscata,cannella,punte di garofano ed erbe odorifere, dopo di che si procedeva ad insaccare il composto entro budella abbastanza ampie ed il tutto veniva fatto cuocere per tre ore”.
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Biroldo |
Da vero amante della cucina e delle tradizioni garfagnine il Rossi con una appassionata prosa descrive il profumo che emananavano i biroldi appena cotti:
“Quando finalmente si estrae la fumante pietanza, per l’ampia cucina si spande un profumo che all’olfatto è una sintesi di odori, ed al palato fin dai primi bocconi è una gamma di sapori che invitano, insieme al fresco e saporito pane casalingo di puro grano, a prepotentemente assaporare e gustare ed a riempirsene più volte il piatto” continua poi: “come bisognasse aver partecipato a questi notturni banchetti, talvolta intramezzati da arguti rispetti nei quali venivano coniate le parole più strane, purchè facessero rima con maiale, porco, suino, porcello, per serbarne un folcloristico e grato ricordo per tutta la vita” e infine raccomanda una serie di preziosi consigli ed indicazioni:
“Si tratta all’evidenza di un cibo che non è indicato per colitici, per chi soffre di ulcera o di gastrite e neppure per gli astemi dato che, per sua natura, reclama abbondanti libagioni di robusto vino (meglio se rosso) e dunque sconsigliato per quanti abbiamo il “vizio di non bere”…Salute a tutti…