Che sapore ha un cibo giusto? Se la sostenibilità ambientale (per fortuna) guadagna spazi di azione, equità e sostenibilità sociale rimangono terreni impervi da percorrere.

Eppure diventa sempre più chiaro: un cibo non è buono, se non è anche pulito e giusto. Un assunto ancor più vero quando si parla di vino, un «bene che si è affermato oggi nella sfera dell’effimero che a maggior ragione dovrebbe affermare e farsi portatore dei valori di equità sociale e della sostenibilità ambientale».

Ad arrivare subito al punto è il professor Gianluca Brunori, economista e ordinario di Food Policy presso l’Università di Pisa, intervenuto il 23 marzo al secondo convegno della Sana Slow Wine Fair, la fiera del vino buono, pulito e giusto in programma a Bologna dal 27 al 29 marzo.

Aspetti che vanno oltre il contenuto della bottiglia

«Il settore del vino va oltre i canoni classici dell’economia: è un settore dove si rinuncia alla quantità per puntare alla qualità. Inoltre, possiamo dire che dal punto di vista organolettico si sono raggiunti standard condivisi e gran parte della qualità è ormai data per assodata. Considerato che il segmento dei conoscitori del vino è abbastanza modesto, per le imprese diventa fondamentale lavorare sulla produzione simbolica, sull’aggiunta di valori che poi sono proprio gli stessi dei princìpi di Slow Food del buono pulito e giusto» ha spiegato Brunori.

«Il settore del vino è l’emblema di come cresca l’importanza di aspetti che vanno oltre il contenuto nella bottiglia. Assistiamo alla crescente ascesa della viticoltura biologica, che conta oggi in Italia quasi al 20 per cento delle superfici vitate. Cresce anche la biodinamica, tanto bistrattata dai media nostrani che non considerano come in questa tecnica agricola l’aspetto ecologico venga portato alla sua radicalità». E con esso l’aspetto sociale.

Il professor Brunori guarda alla cooperazione come a un elemento da risaltare, alle reti di agricoltori di diverso tipo che fioriscono in Italia come punto di riferimento per il raggiungimento di standard che valorizzino il lavoratore all’interno dell’azienda agricola. «Penso, ad esempio, alle associazioni di agricoltori, in Toscana c’è Lucca Biodinamica, un ottimo esempio di collaborazione, dove la squadra consente di migliorare le condizioni di visibilità del marchio e quindi rafforzare le condizioni dei singoli».

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Gli aspetti valoriali del vino

E come possiamo contribuire a rafforzare queste esperienze e a proteggere quelle realtà, citate dal professore, che coinvolgono persone in fragilità o le cooperative sociali? «Gli attori intermedi hanno un ruolo fondamentale in questo. Mi riferisco agli operatori di settore, ai sommelier, ai degustatori che dovrebbero tenere in considerazione altri fattori oltre alle qualità organolettiche». Insomma, l’invito è di andare oltre il calice e considerare altri aspetti valoriali quando si decide di raccontare un vino. Come cerca di fare la guida Slow Wine ormai alla sua tredicesima edizione e che restituisce un racconto completo dell’azienda, a cui viene riconosciuto non solo l’impegno per la bontà e la qualità del vino, ma anche quello per garantire il rispetto della terra e di chi la lavora.

Così succede nell’azienda di Arianna Occhipinti, storica Chiocciola della nostra guida che ha portato la sua testimonianza, assolutamente in linea con quanto auspicato dal professor Brunori. Dice Arianna: «Ho iniziato con un ettaro di terra in una zona della Sicilia, Vittoria, da sempre vocata alla viticoltura. C’era stata però un’espansione della agricoltura a cui però non è seguita una crescita culturale. Con il mio progetto agricolo ho cercato attenermi alla cultura contadina del rispetto delle vocazioni territoriali e di cura della terra. Oggi coltivo 30 ettari di vigna e ho aggiunto altre colture, recuperando varietà di grano locale, come la timilia, ho inserito alberi da frutta, gli ulivi, e poi ultimamente qualche animale, soprattutto galline. Senza vino tutto questo non ci sarebbe stato».

Arianna ha ben chiaro quale sia il suo progetto agricolo: «Ho sempre voluto fare un’agricoltura naturale, sentivo la necessità di fare parlare di questo territorio in modo sincero. Il mio obiettivo è tentare di valorizzare l’agrobiodiversità della mia zona». E naturalmente all’impegno ambientale si aggiunge il rispetto di chi lavora al suo fianco: «La ricerca della sostenibilità agricola non avrebbe nessun valore se dal punto di vista del lavoro non seguissi determinati canoni. Ho sempre cercato di rispettare tutte le leggi italiane, è una bella sfida, ma credo che sia quella vera. Necessaria. Non potrei prendere scorciatoie, mi sentirei impura. Che senso avrebbe ricercare l’armonia con la natura se non cercassi altrettanto rispetto verso le persone? Ho una squadra mista, molto giovane, di 25 persone che cerco di rendere partecipi in ogni fase aziendale. Cerco di mettere insieme cultura e realtà diverse. Credo che sia importante per noi in Sicilia capire che è possibile accogliere, e lavorare anche con chi si trova in fragilità. Io ho fatto così e sono contenta che molte delle persone con cui lavoro oggi hanno conquistato forza e stabilità».

Tutelare il lavoro

Vin de Rosa, Presidio Slow Food, Croazia

Ed è proprio sugli aspetti burocratici e legislativi che molte aziende trovano maggiori difficoltà. Il lavoro nei campi non lascia certo il tempo per destreggiarsi nelle formalità amministrative e spesso sono proprio i lavoratori i primi a pagarne le conseguenze: «In Italia il 40% della manodopera in agricoltura non è regolare, una percentuale che sale al 70% quando si tratta di manodopera straniera. Non ci troviamo di fronte solo a forme di caporalato, ma proprio a non rispettare le norme in materie, a non rispettare quanto previsto dai contratti. E spesso non dipende dalla malafede degli imprenditori, ma proprio dalla difficoltà di applicazione» spiega Claudio Naviglia, Ceo e co-founder di Humus Job, una start up che si occupa proprio di fornire servizi alle aziende e ai lavoratori.

«Assistiamo a un incrementarsi di braccianti agricoli che vivono in strada, lo scorso anno sono iniziati i primi accampamenti spontanei anche ad Alba, capitale delle Langhe, rendendo visibili fenomeni finora nascosti. E ha portato a intensificare i controlli: in 30 casi su 45 verificati, qualcosa non funzionava», una situazione che ci fa capire davvero che cosa si intenda per vino giusto. «Noi non vogliamo puntare il dito, è un fenomeno complesso, molto più grande del singolo produttore. Il nostro impegno è quello di avoratori in ambito agricolo e soprattutto vinicolo, in maniera regolare». Humus Job ha quindi messo a punto un tipo di contratto di rete e lavoro condiviso: «Vogliamo dare un supporto concreto e abbiamo messo in essere un portale dove le aziende trovano la manodopera e i lavoratori sono tutelati. Perché le aziende selezionate sono quelle che rispettano alcuni requisiti, primo fra tutti la sottoscrizione del contratto. Spesso le resistenze alla regolarizzazione sono culturali prima che economiche. Per far sì che non siano i lavoratori, ultimo anello della catena, a pagare le condizioni di un mercato iniquo, abbiamo messo in essere il contratto di rete, che abbassa i costi per le aziende e tutela i lavoratori». Un esempio che speriamo possa essere replicato e allargato a tutte le realtà agricole italiane. E non solo.

Fare vino come un atto di resistenza sociale

Arriva dal Cile l’ultima testimonianza della serata. Ce la porta Carolina Alvarado, viticoltrice di Valparaíso, Cile, e presidentessa di Slow Food Chile: «Per piccole produzioni come la nostra, fare vino in Cile è un atto politico, un atto di resistenza sociale. Sappiamo tutti che in Cile l’acqua è diventata una commodity e che le grandi corporazioni agricole si impadroniscono di tutto. La nostra viticoltura naturale, le dimensioni minime delle nostre aziende ci hanno portato a unirci, a resistere contro forze enormi. Si accaparrano la terra, l’acqua e persino delle forniture fondamentali come i tappi e le bottiglie. Ma noi continuiamo a resistere, stringendo un patto tra di noi e i consumatori. Per farci conoscere abbiamo avviato le degustazioni sociali, in cui presentiamo i vini prodotti dalla comunità. Sono degustazioni gratuite e democratiche, momenti di comunione. Sono occasioni in cui possiamo raccontare che cosa significhi fare agricoltura sostenibile e naturale in Cile, e soprattutto possiamo informare sullo strapotere dell’industria alimentare, delle grandi corporazioni che fabbricano vino e dei ricatti immorali della Gdo. E naturalmente sono momenti di piacere e di convivio, in cui possiamo far assaggiare il frutto del nostro lavoro.»

Quello che avremo tutte e tutti l’occasione di provare a Bologna, a partire da domenica 27 e fino a martedì 29 marzo. Noi vi aspettiamo, per fare un brindisi e soprattutto per avviare insieme la rivoluzione del vino giusto.

Cover image Tina Witherspoon, Unsplash

di Michela Marchi, info.eventi@slowfood.it

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