Matteo Messina Denaro è morto. Ascesa e fine del boss delle stragi

L’arresto di Matteo Messina Denaro, il 16 gennaio 2023, nella Clinica Maddalena di Palermo – Reuters
Si compiaceva della macabra metafora del camposanto: “Con tutti quelli che ho ammazzato si può riempire un cimitero”. Uomini del disonore, colpevoli e innocenti, donne, bambini, magistrati, preti, padri di famiglia con una divisa. Matteo Messina Denaro è stato il peggio della peggiore mafia. Se gente come Totò Riina e Bernardo Provenzano non sono mai riusciti a pronunciare né a scrivere una sola frase in un italiano decente, Messina Denaro si era costruito la fama di mafioso presentabile. Di quelli che puoi mettere a tavola senza doversene vergognare. Ma in comune, con i banditi di Corleone diventati viceré di Sicilia, viveva con quel delirio che ci vuole un Tomasi di Lampedusa a spiegarlo: “E tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
La cattura di Matteo Messina Denaro e la sua morte non saranno mai un risarcimento. Né per le vittime, né per la democrazia che da Cosa nostra è stata condizionata e minacciata. Ma il mafioso che riempiva i cimiteri, al camposanto non ci andrà da uomo libero. E questa, nella terra dei silenzi indecifrabili, dove “la meglio parola è quella che non si dice”, è la vittoria dello Stato e una sconfitta della mafia, non solo di Messina Denaro. A differenza di suo padre, don Ciccio da Castelvetrano, che dallo Stato non si fece prendere neanche da morto. Matteo, fu il giovane boss che don Ciccio Messina Denaro mandò a studiare a Corleone, per farlo allevare da Totò Riina, “la belva”. E presto l’apprendista capobastone avrebbe messo in pratica tutte le regole del disonore. Nel 1984, a 22 anni, avrebbe mostrato sangue di ghiaccio, freddo come l’odio, quando si sarebbe trattato di mettere in pratica l’esempio del maestro cattivo corleonese. Insieme al padre verrà accusato di avere strangolato a mani nude e sciolto nell’acido 4 delinquenti. I corpi non si troveranno mai. E a quel tempo in Cassazione c’erano più assoluzioni che condanne per i morti ammazzati. Matteo né uscì pulito, mostrando d’essere all’altezza del patriarca, e di avere appreso il codice di Riina, facendosi beffe dello Stato.
È così che nascono i boss. Anche lui regnava con l’arma del terrore. Ma che la mafia dei Riina, dei Provenzano, dei Messina Denaro sia finita lo si è capito non nel momento della cattura dell’ultimo superlatitante. Ma quando il suo cacciatore, perché è anche dai cacciatori che si dà peso alle prede, anziché presentarsi a volto mascherato per proteggersi dalle rappresaglie, si è offerto alle telecamere con le parole che per quelli come “u siccu” significano che lo Stato non ha paura. “Non ho nulla da nascondere – disse il colonnello Lucio Arcidiacono, comandante del primo reparto del Ros – anche perché io sono entrato nell’Arma il 28 ottobre del 1993 e un siciliano capisce bene cosa significa”. Erano gli anni in cui Messina Denaro e compagnia avevano dichiarato guerra all’Italia, con le stragi di Capaci e Via d’Amelio, l’attentato al giornalista Maurizio Costanzo, il fallito eccidio dei Carabinieri a Roma, le bombe nei musei e nelle chiese per vendicarsi della politica e del Vaticano. L’assasinio di don Pino Puglisi, il 15 settembre di quello stesso anno, approvato dall’intera “cupola”, sarà l’agguato meno costoso (un solo colpo di proiettile) e più salato. Tanto da fare infuriare Messina Denaro, come raccontano i suoi “pizzini”, il giorno in cui saprà che don Pino sarebbe stato innalzato agli onori degli altari, mentre loro, i malacarne, erano stati scomunicati.