Intervista a David Riondino: artista arguto e pungente dei tempi in cui i cantautori avevano qualcosa da dire
David Riondino, cantautore, attore, regista e scrittore italiano, è giunto a Lucca, per far parte della giuria del Festival del Cinema. Un’occasione unica, per incontrare: me lo permettete? un vecchio amico. Anche se non ci siamo mai parlati.
Ma certamente, ero, e in prima fila, al Teatro Tenda, poco più in là della sede Rai di Firenze, quando al grande cantautore, intellettuale, e spirito inventivo caustico e visionario come pochi, fu dato l’onore di aprire il concerto di quello che non era ancora, ma presto sarebbe diventato il mito- Fabrizio De Andrè:
“Come faccio a non ricordarlo?!” – mi dice Riondino, con quella sua voce modulata che sembra già: canto, – “Avevo fatto delle esperienze con la PFM e loro mi proposero. Anche perché a Firenze il mio nome valeva qualcosa. Anche se ero di fronte ad un mostro sacro! Almeno per le avanguardie di sinistra”.
Già, sono passati secoli, dopo quello “breve” in cui è tramontato il comunismo. Quando, tra il dicembre 1978 e il gennaio 1979, David Riondino, classe 1952, ha l’occasione unica di aprire i concerti nella tournée di Fabrizio De André con la Premiata Forneria Marconi (Patrick Djivas e Franz Di Cioccio avevano suonato nel suo album d’esordio appena uscito).
Fabrizio De Andrè non era certo conosciuto come oggi, anche perché non voleva assolutamente apparire in pubblico. Ma dopo l’uscita forzata alla Bussola, spinto da una parte da Dory Ghezzi, tirato dall’altra da Paolo Villaggio, trascinato a forza in un albergo delle Focette, e da lì condotto attraverso il mitico lungomare, sul palco musicale italiano più famoso al mondo quello della Bussola di Bernardini, sembrava averci preso gusto. Ed era nata addirittura una tournèe!?
Oggi con i Maneskin, siamo…”al chiaro di luna” delle idee! Le ideologie non sappiamo più neppure cosa siano. Ma allora era molto diverso. E si sperava in un mondo che fosse diverso. E diverso lo è diventato veramente!
Ne parliamo a lungo. Riondino che mi dice tante cose di sé ed io gli parlo di me, che ero andato a letto sentendo prima, sempre, ogni sera, i 45 giri di De Andrè.
Per quel concerto, aperto proprio da David Riondino, un’arguzia ed un’intelligenza particolari, telefonai dopo diversi tentativi ed una ricerca che non era facile come con Internet, e gli confessai con voce emozionata che dovevo scrivere sul suo concerto di Firenze e che era il mio idolo. Ma non solo musicale. Credo che chi ha vissuto politicamente quell’epoca, mi capisca. Lui mi rispose secco, ma quasi ridendo: “Allora è meglio non incontrarci, perché quando s’incontra un mito, questo inevitabilmente decade e ci si sbriciola davanti!”.
Mi fece avere però un posto in prima fila. Mi s’intravede anche in una foto nella controcopertina del disco, con mia moglie e mia cognata. Io raccolsi molte delle sigarette che gettava davanti a lui che vedevo lì vicino. Ma dopo l’overture ottima, piena di verve fiorentina di Riondino, alle prime note… rimasi interdetto! Riondino ride delle nostre mitologie di allora. E gli confesso che tra i miei mirabilia, ho ancora quelle cicche di sigaretta (non tutte perché Fabrizio in due ore era capace di fumarne decine e decine!): casomai qualcuno volesse tra qualche secolo, ricreare in laboratorio uno che non voleva essere chiamato: poeta.
Ma nel pezzo, scritto per una delle riviste più importanti di musica ed Hi-Fi che allora andavano alla grande, salvai solo David Riondino, che avevo visto al Campino di Rifredi, credo anche in un teatro di Pontassieve e forse qualche volta al mitico Universale d’Essai, dove era obbligatorio andare a vedere i film “impegnati”.
Ero al mio primo articolo nazionale e stroncai il grande genovese:
“Come intitolasti l’articolo?” mi chiede Riondino?
“La fine di un mito. Si perché per me era l’Omero del ’68. Ma rendere un pò rock “Marinella” o “Bocca di Rosa” a me sembrava assurdo, come se Marasco, per restare ai cantautori fiorentini avesse fatto un concerto con i New Trolls!!
Ma andando avanti in questa che da intervista è diventata una piacevolissima chiaccherata tra vecchi amici, scopro che Riondino ed io frequentavamo già gli stessi ambienti, nei miei 15 anni fiorentini. Per esempio, la Biblioteca Nazionale:
“Si, sono stato impiegato alla “Nazionale” per una decina d’anni. Io ero ai manoscritti su al primo piano, ma forse te mi parli delle figure mitiche che erano al banco, cioè al pubblico e che sapevano tutto di ogni cosa, come il Paolini!”.
Del resto, Riondino e la cultura sono tutt’uno.
Figlio di un maestro elementare, Luigi Riondino, esponente della avanguardia educativa, amico di eminenti personalità della cultura fiorentina, quali Primo Conti e Giorgio La Pira, il figlio non poteva non innamorarsi della cultura e così fece parte di quella schiera di incredibili “impiegati” che qualunque testo tu cercassi loro sapevano dove trovarlo, negli scaffali che l’Arno tentò di portarsi via nel 1966.
“Ma tu come hai iniziato la carriera?”.
“Nell’ambiente musicale fiorentino. All’inizio degli anni ’70. Con gli amici e compagni, ci si ritrovava in una bottega di Via dell’Oriuolo, la via più fiorentina di tutte, dove si dice cadde e rotolò la “palla” fatta dal Verrocchio e da Leonardo, colpita da un fulmine che amputò il Cupolone, incontrandoci lì o a Rai 3 con personaggi alcuni diventati poi noti. S’imparava a memoria De Andrè, Guccini – ride quando gli dico che il cantautore di Pavana, Enzo, Biagi ed io, siamo lontani parenti, avendo una trisavola in comune, – non disdegnando pezzi di Patty Pravo o la “Bambolina di Michel Polnareff. Poi, quando ero poco più che ventenne abbiamo fondato, con mia sorella Chiara, ancor oggi bravissima cantante, il Collettivo Víctor Jara, (non occorre che dica a te che era il nome del grande cantautore cileno assassinato nel golpe del ’73) – ed io gli chiedo, di rimando, se c’era alla Fortezza da Basso quando intervistai gli Inti-Illimani! – Cantavamo contro la guerra… con mia sorella Chiara, che oltre che ottima cantante, suonava la chitarra, Silvano Panichi, voce, flauto, percussioni poi anche lui attore e regista, Daniele Trambusti, poi comico di un certo successo, Gaia Gualtieri, Massimo Fagioli, Massimo Agus, Sandro Fani, e con qualche apparizione anche Paolo Hendel, una cooperativa di teatro-musica-animazione, un ensemble “militante” che faceva del teatro-azione. Avendo per riferimento Boris Vian o Dario Fo, i Gufi o Ivan della Mea. Perché insieme al canto ho sempre amato la parola ed il discorso”.
E a riprova, Riondino, oltre che autore di pezzi indimenticabili, – come scordare: Mi piaci Fanfani? Avrà largo successo come verseggiatore satirico, collaborando con numerose riviste storiche di satira e controcultura, più o meno goliardiche: Tango, Il Male, Cuore, Comix, Boxer. Ma con interventi anche sul quotidiano “Il Manifesto”.
Si meraviglia e mi chiede dove ho trovato, certi suoi interventi di intelligenza superiore, che faceva alla TV della Svizzera.
Nel 1979, pubblicherà con l’etichetta Ultima Spiaggia il primo album. L’anno successivo esce il secondo disco: Boulevard. Ma accanto alla passione per la musica, emerge con forza un talento notevole per l’improvvisazione di ogni genere di spettacolo (aiutato dalla parlantina) che lo porta al debutto come comico al teatro Zelig di Milano a soli 22 anni.
Ma tutto è nulla per chi avrebbe voluto cambiare il mondo! È negli anni ottanta Riondino incontra il cinema, dalla breve apparizione in Maledetti vi amerò, film d’esordio di Marco Tullio Giordana, in cui si esibisce cantando la sua “Ci ho un rapporto”, all’interpretazione del guru dei fattorini nel secondo film di Gabriele Salvatores Kamikazen – Ultima notte a Milano.
Ma anche nella musica “commerciale” ha successo e nel 1975 scrive insieme a Lu Colombo la canzone Maracaibo, che sotto sotto avrebbe altri sensi, ma diventerà la colonna sonora dell’estate 1981 e un pezzo di culto della musica italiana di quegli anni.
E come lasciare da parte la televisione. Nel 1987, collaborando dapprima con Lupo solitario e poi negli anni successivi con Zanzibar, Fuori orario, Aperto per ferie, L’araba fenice, fino ai più recenti Maurizio Costanzo Show, Quelli che il calcio e Bulldozer.
Di nuovo la vena di cantautore, negli anni ottanta vedono Riondino tra l’altro autore del rarissimo “Tango dei miracoli”, disco dalla lunga gestazione, uscito solo in edicola, con le illustrazioni di Milo Manara. Poi è la volta del teatro, con “Romanzo picaresco” opera del suo debutto nel 1989, cui seguono: “Chiamatemi Kowalski” e “La commedia da due lire”, entrambe realizzate con Paolo Rossi. E l’attività a teatro diventa sempre più centrale nel corso degli anni novanta, dove è in scena con “O patria mia”, diretto da Giuseppe Bertolucci, accanto a Sabina Guzzanti, con la quale fonderà anche una società di produzione.
Ma è a teatro anche con Dario Vergassola, con cui porteranno sui teatri di tutta Italia dapprima I cavalieri del Tornio – Recital per due e poi Todos Caballeros, gioco intorno al Don Chisciotte della Mancia di Cervantes.
Ma senza dimenticare l’attività di cantautore: nel 1995, con l’album “Quando vengono le ballerine?” e, con la compagna Sabina Guzzanti, Riondino presenta a Sanremo la canzone: “Troppo sole”, scritta l’anno precedente, durante la stesura della sceneggiatura del film omonimo per la regia di Giuseppe Bertolucci. Debutta alla regia cinematografica nel 1997 con Cuba libre – Velocipedi ai tropici, di cui è anche sceneggiatore.
E con tante prove e tanta esperienza arriva ad avere una sua attività di direttore e consulente artistico.
“E Lucca?”.
“Bè, Lucca è una città bellissima, come uno sfondo di teatro. E gli anziani come me li chiamano anche in giuria: qui sono in quella del Festival del Cinema, che la trovo un’iniziativa importante. E poi a Lucca abitava una mia nonna, che aveva dei cavalli, stava in campagna, ma non ricordo dove”.
E così, parlando di campagna, viene fuori il suo amore per una figlia, Giada, che conduce un agriturismo a Grassina, ma è sempre nel mondo culturale curando graficamente ed oltre l’edizione di libri in un’importa casa editrice. Ma mi guardo bene dal chiedergli della moglie, perché so che non si è mai sposato. E neppure chi sia la mamma di Giada, perché in tanti hanno vociferato che possa essere Sabina Guzzanti, altri dicono sia nata da una precedente relazione di Riondino. Fatto sta che lui è stato molto bravo a mantenere tanto riserbo sulla propria vita privata. E perché devo indagare io? Certo quello con Sabina, la terribile imitatrice di Moana Pozzi o della Marini e di certe parlamentari, tutte di Centro Destra quando si dice il caso! È stato un lunghissimo ed importantissimo rapporto per David, che gli è stata vicina anche quando gli sono capitati certi guai tipici delle persone troppo famose.
Terminando l’intervista, vedo che non gli ho detto della sua somiglianza estrema con Bob Dylan, ma chissà in quanti gli lo hanno detto!
Invece nell’incontro che mi piacerebbe un giorno continuare, faccio a tempo a chiedergli l’origine del cognome, che presumo pugliese:
“Si è proprio così. Il ceppo viene da Santa Maria di Leuca. Ed io mi vergogno, ma della Puglia conosco davvero poco!”.
Io lo riprendo dicendo dell’antica civiltà e cultura di quella regione singolarmente diversa dalle altre regioni meridionali italiane, dove ad esempio si trova in tante parti un matriarcato ed un “potere” femminile sconosciuto in altre parti del Sud Italia.
Allora quasi a scusarmi racconta della sua famiglia d’origine con 8 fratelli. Di un nonno ufficiale di Marina trasferitosi a La Spezia. E dei suoi studi, interrotti dalla chitarra, e poi ripresi con una laurea in Lettere, sull’origine della corrida e degli improvvisatori in ottava rima cubani. Non come quelli toscani, più cari a Benigni che a questo “monumento” alla creatività deve molto: “da essere innamorato a sangue della parola” alla passione per Dante, a quel suo modo giullaresco, al soliloquio apparentemente senza senso….”Va bè,… – mi dice salutandomi David Riondino, – ma tra me e lui ci deve essere per forza qualche differenza: lui ha studiato in seminario e viene dalla campagna di Prato, da Vergaio, io sono cittadino!”.
DI DANIELE VANNI