Il Santo del giorno, 17 Settembre: S. Idelgarda di Bingen, mistica e Dottore della Chiesa, patrona degli Esperantisti
Scrittrice, (un suo manoscritto che contiene quasi tutte le sue opere pesa 15 chili!) drammaturga, poetessa, musicista e compositrice, (un suo pezzo rivisitato è finito in hit parade nel 2012!) filosofa, linguista, cosmologa, guaritrice, naturalista, consigliera politica e profetessa! Fu detta la Sibilla del Reno per le sue visioni apocalittiche sul mondo e sulla Chiesa, fu una santa anticonformista e a suo modo controcorrente, che osò sfidare anche l’Imperatore Barbarossa!
La Chiesa, a sua discrezione e i Santi sempre lo sono, ha fatto Santo di oggi anche il Cardinale Bellarmino che riportiamo quindi obbedienti! Anche se…
Oggi si festeggerebbe il Cardinale Bellarmino, addirittura Dottore della Chiesa, teologo insigne,che venne però spesso osteggiato anche in seno alla Chiesa e spesso “inviato” in periferia. In questo santo però, restano dei lati oscuri che non spetta certo a noi d’indagare o mettere in evidenza, solo non ci piace parlare della vita di questo grande studioso gesuita (gesuita rosso veniva detto, per il manto cardinalizio, che per questa sua appartenenza non salì al soglio pontificio) perché participò a due grandi processi che hanno nociuto non poco alla Chiesa: contro Giordano Bruno e contro Galileo Galilei!
Pare che non fu mai presente alle torture che i carcerieri pontifici inflissero al filosofo di Nola, bruciato poi vivo sul rogo in Campo dei Fiori, dove oggi la sua statua, voluta da grandissimi intellettuali di tutto il mondo, è uno dei monumenti più visti nella pur visitatissima Roma. Ma certo, come capo del Tribunale d’Inquisizione, fu al centro di uno dei periodi peggiori della Chiesa, che videro (sotto il Cardinale Carafa!) l’incredibile esecuzione dell’”eretico” Algerio (bollito prima di essere arso, in una pentola di pece olio e trementina!) e nello stesso perio di Bruno dell’infinita detenzione del filosofo Tommaso Campanella!
Quindi ci occupiamo di S. Ildegarda(Bermersheim vor der Höhe, 1098 – Bingen am Rhein, 17 settembre 1179) religiosa e naturalista tedesca. Benedettina, e dichiarata Dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI.
Ma nella sua vita fu anche scrittrice, drammaturga, poetessa, musicista e compositrice, filosofa, linguista, cosmologa, guaritrice, naturalista, consigliera politica e profetessa!
Nacque, ultima di dieci fratelli, nell’Assia-Renana, nell’estate del 1098, un anno prima che i crociati conquistassero Gerusalemme.
Le visioni di Ildegarda sarebbero iniziate in tenera età e avrebbero contrassegnato un po’ tutta la sua esistenza.
All’età di otto anni, a causa della sua cagionevole salute, era stata messa in convento dai nobili genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim, dove fu educata da Jutta di Sponheim, giovane aristocratica ritiratasi in monastero. Prese i voti tra il 1112 e il 1115, dalle mani del vescovo Ottone di Bamberga.
Ildegarda studiò sui testi dell’enciclopedismo medievale di Dionigi l’Areopagita e Agostino.
Iniziò a parlare – e a scrivere – delle sue visioni (che definiva «visioni non del cuore o della mente, ma dell’anima»)solo intorno al 1136 quando aveva ormai quasi quarant’anni.
Trasferitasi nel monastero di Rupertsberg, da lei stessa fondato nel 1150, si dice facesse vestire sfarzosamente le consorelle, adornandole con gioielli, per salutare con canti le festività domenicali.
Nella sua visione religiosa della creazione, l’uomo rappresentava la divinità di Dio, mentre la donna idealmente personificava l’umanità di Gesù.
Nel 1165 fonderà un altro monastero, tuttora esistente e floridissimo centro religioso-culturale, dal lato opposto del Reno, ad Eibingen. Il monastero è visitabile e nella Chiesa si possono ammirare gli affreschi che ritraggono i momenti più salienti della vita di Ildegarda e i segni straordinari che accompagnarono il momento del suo trapasso, avvenuto il 17 settembre 1179.
Nell’arco di una dozzina di anni, tra la fine del 1159 e il 1170, compì quattro viaggi pastorali predicando nelle cattedrali di Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz e Werden.
Ildegarda fu spesso in contrasto con il clero della Chiesa cattolica; tuttavia, riuscì a ribaltare il concetto monastico che fino ad allora era, e per molto tempo ancora sarebbe rimasto, inamovibile, preferendo una vita di predicazione aperta verso l’esterno, a quella più tradizionalmente claustrale. Monaca controcorrente e anticonformista, aveva studiato a lungo teologia, musica e medicina, divenendo un’autorità nella Chiesa.
Ha lasciato alcuni libri profetici – lo “Sci vias” (Conosci le vie), il Liber Vitae Meritorum (Libro dei meriti della vita) e il Liber Divinorum Operum (Libro delle opere divine), tra le cui figure viene rappresentato l’Adam Kadmon gnostico.
Inoltre di sua mano sono pure una notevole quantità di lavori musicali.
Un notevole contributo diede pure alle scienze naturali, scrivendo due trattati enciclopedici che raccoglievano tutto il sapere medico e botanico del suo tempo e che vanno sotto il titolo di Physica (Storia naturale o Libro delle medicine semplici) e Causae et curae (Libro delle cause e dei rimedi o Libro delle medicine composte).
Ebbero anche grande fama le sue lettere a vari destinatari, che trattano di diversi argomenti, nelle quali Ildegarda risponde soprattutto a richieste di consigli di ordine spirituale.
Una posizione centrale nel pensiero di Ildegarda – di carattere assai forte, ma cagionevole di salute – la occupa la Viriditas, l’energia vitale intesa come rapporto filosofico tra l’uomo – con le sue riflessioni e le sue emozioni – e la natura, preziosa alleata anche per guarire dalle malattie.
La Lingua ignota: le 23 litterae ignotae di Ildegarda
Ildegarda fu l’autrice di una delle prime lingue artificiali di cui si abbiano notizie: la Lingua ignota (dal latino “lingua sconosciuta”), da lei utilizzata probabilmente per fini mistici.
Non è noto se altri, oltre la sua creatrice, abbiano avuto familiarità con essa.
Nel XIX secolo alcuni credevano che Ildegarda avesse ideato il suo linguaggio, per proporre una lingua universale che unisse tutti gli uomini (per questo motivo santa Ildegarda è riconosciuta oggi come la patrona degli esperantisti con San Pio X).
Tuttaviaoggi è generalmente accettato che la Lingua Ignota sia stata concepita come un linguaggio segreto,simile alla “musica inaudita” di Ildegarda, della quale ella avrebbe avuto conoscenza per ispirazione divina. Questa lingua, essendo stata ideata nel XII secolo, può essere considerata come una delle più antiche lingue artificiali oggi conosciute.
La sfida all’Imperatore
Monaca “aristocratica”, Ildegarda più volte definì se stessa come «una piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio».
Fedele peraltro al significato del suo nome, “protettrice delle battaglie”,fece della sua religiosità un’arma, per una battaglia da condurre per tutta la vita: scuotere gli animi e le coscienze del suo tempo.
Non ebbe timore di uscire dal monastero, per conferire con vescovi e abati, nobili e principi.
In contatto epistolare con il monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle, sfidò con parole durissime l’imperatore Federico Barbarossa, fino ad allora suo protettore, quando questi oppose due antipapi ad Alessandro III.
L’imperatore non si vendicò dell’affronto, ma lasciò cadere il rapporto di amicizia che fino ad allora li aveva legati.Nel 1169, riuscì in un esorcismo su una tale Sigewize, che si era ricoverato nel suo monastero, dopo che altri religiosi non erano approdati a nulla: nel rito da lei personalmente condotto, volle però naturalmente la presenza di sette sacerdoti (unici dotati del ministero di esorcizzare).
La sua memoria liturgica cade il 17 settembre, giorno della sua morte (dies natalis). Tale giorno, secondo la tradizione, sarebbe stato “predetto” dalla santa a seguito di una delle sue ultime visioni.
Ildegarda fu seppellita nel Monastero di Rupertsberg, dove le fu elevato un ricco mausoleo. Quando però nel 1632, durante la Guerra dei Trent’anni, il monastero fu distrutto e bruciato dagli Svedesi, i monaci benedettini portarono via con loro le reliquie nella cappella del priorato di Eibingen, dove ancora oggi si trovano.
Ildegarda nel corso della sua vita ebbe numerosissime visioni, di cui ha lasciato dettagliati resoconti illustrati nei manoscritti Sci vias e Liber divinorum operum.
Moltissimi film si sono girati sulla sua vita: vogliamo ricordare quello della regista Margarethe von Trotta.
Hildegard_von_Bingen_Liber_Divinorum_Operum
Liber Divinorum Operum, XIII secolo
L’elenco delle opere scritte da Ildegarda di Bingen (Bermersheim vor der Höhe, 1098 – Bingen am Rhein, 1179), la «Sibilla del Reno», è assai nutrito, ma ancor più vasto è l’elenco dei temi che trattò.
Santa Ildegarda, che è stata proclamata Dottore della Chiesa da Sua Santità Benedetto XVI, scrisse di teologia, di filosofia, di morale, di agiografia, di scienza, di medicina, di cosmologia; compose liriche, eccelsa musica ed intrattenne un fitto scambio epistolare con numerosi corrispondenti di tutta Europa. Eppure ella si proclamava indoctae attingeva le sue mirabili conoscenze ad una ricchissima cultura infusa.
Scrisse sempre in latino, pur non avendolo mai studiato.
Il ruolo di Ildegarda, nata in un villaggio poco distante da Magonza e decima figlia del nobile Ildeberto di Bermersheim, fu quello dell’intermediaria fra Cielo e terra, di colei che parla non per propria volontà, ma per bocca della Vivente Luce, quella Luce che le trasfuse la Sapienza e che vide già a tre anni.
Lei stessa scriverà: «i miei genitori con gemito mi consacrarono a Dio, e a tre anni vidi una così gran luce, che la mia anima tremò; ma, data la mia età infantile, nulla potei dire di questa visione. A otto anni fui offerta a Dio per la vita religiosa e fino a quindici anni ebbi molte visioni e dissi diverse cose con semplicità, per cui coloro che udirono ciò si chiedevano meravigliati, donde questo provenisse e da chi. E rimasi anch’io stupita del fatto che, quando avevo una visione interiore, vedevo anche con gli occhi del corpo; e poiché di nessuno udii una cosa simile, tenni nascosta quanto potei la visione che avevo nell’intimo; e ho ignorato molte cose esteriori a causa del frequente malore di cui ho sofferto da quando venivo allattata da mia madre fino ad oggi, malore che macerò il mio corpo ed indebolì gravemente le mie forze» (Vita di santa Ildegarde, scritta dai monaci Goffredo e Teodorico, Libro II, cap. I, 16).
Questa umile e malatissima monaca benedettina, entrata in convento a 8 anni e che prese i voti perpetui a 15, ebbe ordine dal Signore di parlare e di scrivere per diventare «tromba di Dio». Con i suoi consigli, con i suoi severi e rigorosi ammonimenti indicò la via, anche agli uomini di Chiesa, del ben operare, sciogliendo i dubbi di chi vacillava. Interpellava le alte personalità della stessa Chiesa e dell’Impero ricordando i loro compiti, le loro responsabilità davanti a Dio, prima ancora che davanti agli uomini, e rammentando l’origine del loro potere.
Nel Riesenkodex (il tomo manoscritto, che pesa 15 chili, conservato nella Landesbibliothek di Wiesbaden, compilato fra il 1180 e il 1190, e che contiene l’opera omnia di santa Ildegarda, ad eccezione dei trattati di carattere medico-naturalistico) la corrispondenza epistolare è ordinata secondo lo stato sociale di appartenenza. All’ultimo posto umili laici e basso clero, preceduti da abati, badesse, benestanti e nobili, per poi giungere a vescovi, arcivescovi, nobiltà titolata fino al Papa e all’Imperatore.
Svariati sono gli argomenti affrontati da questa mistica davvero sui generis, il cui rapporto con il trascendente non avviene attraverso l’estasi, ma nella coscienza piena delle sue facoltà sensibili e intellettive.
Di grande valore sono le 308 questioni sottoposte alla Badessa di Bingen dai monaci del monastero di Villers, le cui risposte formano un trattato dal titolo Solutiones triginta octo questionum. Le domande vertono sull’ordine e sull’essenza della Creazione, sul rapporto che lega Dio agli uomini, sui concetti di corpo, anima, uomo e angelo.
Nel 1150 fonda il convento di San Roberto nei pressi di Bingen e nel 1165 quello di Eibingen, al di là del Reno. La sua fama si amplia nel continente e viene interpellata anche per tenere prediche contro le eresie. Jean de Salisbury (1120-1180), Vescovo di Chartres, parla della benedettina in una lettera del 1167 e fa allusione alla grande fiducia che ha nei suoi confronti papa Eugenio III (?-1153).
Re Conrad III di Hohenstaufen (1033-1152), zio di Federico Barbarossa (1122-1190), nonché duca di Franconia, re d’Italia, re di Germania e imperatore, chiede le sue preghiere e lei lo incoraggia e lo ammonisce nel contempo: «Beati coloro che si sottomettono dignitosamente al candeliere del sommo Re. O re, sii perseverante e monda il tuo spirito da ogni sporcizia. Poiché Dio sostiene coloro che lo cercano con cuore puro e fervente». Esiste anche una corrispondenza fra santa Ildegarda e Federico Barbarossa, che ebbe modo di incontrare personalmente nel 1155, nel castello di Ingelheim.
Tre sono i suoi trattati teologi: Scivias, Liber vite meritorum, Liber divinorum operum. Lo Scivias (Conosci le vie), scritto fra il 1141 e il 1151, e i cui primi capitoli vennero letti da Eugenio III di fronte al Sinodo di Treviri del 1147, è articolato in tre parti ed è un’esortazione a conoscere e seguire le vie che conducono a Dio.
Nella prima parte la mistica vede la Luce Vivente ed il regno di Dio, l’origine del male, il peccato originale, le sue nefaste conseguenze e le schiere angeliche.
La seconda parte tratta della Redenzione, quindi dell’Incarnazione del Figlio di Dio, della Chiesa, del suo contributo alla Salvezza e dei Sacramenti. La terza parte riprende i temi precedentemente affrontati, partendo da Adamo fino al tempo della Salvezza, frutto di eventi quali l’Incarnazione, la Passione, la Redenzione e l’Ascensione; ma si tratta anche di una vicenda individuale, legata alla relazione che l’anima stabilisce con il peccato e con le virtù.
Si giunge, quindi, al Giudizio universale, quando il creato avrà ritrovato il proprio ordine e il male verrà punito ed allontanato, lasciando lo spazio soltanto alla gioia ed al canto.
La seconda opera teologica, Liber vite meritorum (Libro dei meriti di vita) venne scritto fra il 1158 e il 1163. È un trattato dialettico fra i vizi, presentati in tutta la loro fallace falsità, e le virtù, che sono in grado di smascherare l’inganno dei vizi. Infine nel Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), scritto fra il 1163 e il 1174, l’autrice sintetizza i concetti teologici, le conoscenze scientifiche, le speculazioni relative al funzionamento della mente dell’uomo ed della struttura del cosmo. Un testo davvero impressionante per la completezza dell’esposizione e per le sue conclusioni. Il punto di partenza e di arrivo delle sue analisi antropologiche e cosmologiche è l’attività creatrice di Dio. Fede e ragione, in santa Ildegarda, combaciano perfettamente: «L’uomo, in effetti, Egli lo creò a sua immagine e somiglianza;in esso Egli iscrisse, con fermezza e misura, la totalità delle creature. Da tutta l’eternità la creazione di questa opera, la creazione dell’uomo, era prevista nel suo consiglio. […] Attraverso di me in effetti ogni vita si infiamma. Senza origine, senza termine, io sono quella vita che persiste identica, eterna. Quella vita è Dio. Essa è perpetuo movimento, perpetua operazione, e la sua unità si mostra in una triplice energia. L’eternità è il Padre; il Verbo è il Figlio; il soffio che collega i due è lo Spirito Santo» e il perpetuo movimento è intriso di ineffabile e incommensurabile amore. È in questo libro che Ildegarda anticipa la raffigurazione celeberrima dell’uomo al centro di un cerchio (la perfezione), che realizzerà (non certo con spirito mistico, e neanche religioso, se non alla sua maniera!) Leonardo da Vinci (1452-1519) quattro secoli più tardi.
Le opere scritte della «Sibilla del Reno» riguardano anche il futuro del mondo e della Chiesa. Le sue visioni sugli ultimi tempi hanno avuto un grande influsso sul pensiero escatologico medioevale. Ildegarda parlò degli errori e dei peccati del clero, parlò della crisi della Fede, alla quale Benedetto XVI ha dedicato, a partire dall’11 ottobre 2012 un anno intero.
Nello Scivias ella afferma, per bocca di Dio: «[…] si prevede ancora la terribile prova dei suoi [di Cristo] membri [del Corpo mistico, ovvero la Chiesa] […]. La figura di donna che prima avevi visto accanto all’altare, è la sposa del Figlio di Dio… Le macchie che coprono il suo ventre, sono le numerose sofferenze sopportate da lei nella sua lotta contro il figlio della perdizione, cioè contro Satana. Questi però viene colpito potentemente dalla mano di Dio. […]. È la rivelazione della potenza di Dio, sulla quale si appoggia la sposa di mio Figlio. Si manifesterà nel candido splendore della fede, quando dopo la caduta del figlio della perdizione molti torneranno verso la verità, in tutta la bellezza che splenderà sulla terra».
L’esistenza e gli scritti di questo Dottore sono un mirabile impasto di terra e di Cielo: Ildegarda, con linguaggio talvolta virile e talaltra sinfonico, costituito da potenza e grazia insieme, affrontò i temi della teologia con sicurezza e prontezza, forte dell’assistenza dello Spirito Santo. Il suo dire coraggioso e la sua azione determinata e ricca di autorità possiedono l’impeto e la forza di chi è stato direttamente incaricato da Dio di contribuire alla costruzione delle mura della Città Celeste.
Roberto Francesco Romolo Bellarmino(Montepulciano, 4 ottobre 1542 – Roma, 17 settembre 1621) è stato un teologo, scrittore e cardinale italiano, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e proclamato dottore della Chiesa (!). Apparteneva all’Ordine dei Gesuiti.
Terzogenito di cinque figli, nacque in una famiglia di Montepulcianodi nobili origini, per parte sia paterna sia materna, ma in via di declino economico.
Suo padre, Vincenzo Bellarmino, fu gonfaloniere di Montepulciano, e sua madre, Cinzia Cervini, molto pia e religiosa, era sorella di papa Marcello II.
Fu quindi battezzato dal cardinale fiorentino Roberto Pucci, al quale probabilmente deve l’onore del suo primo nome, mentre il secondo è in riferimento a Francesco d’Assisi, il santo onorato il 4 ottobre giorno della sua nascita. Romolo fu dato in onore di un antenato della famiglia.
Fin da piccolo ebbe una salute precaria e una forte inclinazione per la Chiesa.
Dopo un’iniziale educazione in famiglia, vista l’inclinazione religiosa, fu inviato per gli studi presso i padri gesuiti da poco arrivati anche a Montepulciano, dei quali sua madre aveva grande stima.
All’età di sedici anni espresse l’intenzione di entrare nell’ordine gesuita, ma suo padre preferiva inviarlo a Padova per indirizzarlo al clero secolare, convinto che le ottime doti del figlio gli avrebbero permesso di fare una buona carriera ecclesiastica con miglioramento economico dell’intera famiglia. Roberto persistette nel suo intento di farsi gesuita e si consolò sapendo che anche un suo cugino di Padova, Ricciardo Cervini, desiderava entrare nel nuovo ordine religioso. Suo padre alla fine concesse il permesso.
A diciotto anni entrò con il cugino presso il Collegio Romano il 20 settembre 1560 e il giorno dopo fecero la loro prima professione religiosa. Suo cugino Ricciardo Cervini morì solo quattro anni dopo il loro ingresso in noviziato.
Nonostante la sua stretta parentela con un pontefice, fu riconosciuta la sua umiltà e il suo impegno negli studi e si affermò che la sua vita si confaceva ad uno dei suoi libri spirituali più seguiti, l’Imitazione di Cristo.
Fin da giovanissimo mostrò doti letterarie ed ispirandosi agli autori latini come Virgilio, compose diversi piccoli poemi sia in lingua volgare che in lingua latina. Uno dei suoi inni, dedicato alla figura di Maria Maddalena, fu inserito poi per l’uso nel breviario.
Studiò nel Collegio romano dal 1560 al 1563, e fu condiscepolo del matematico, tedesco e gesuita, Cristoforo Clavio.
Iniziò successivamente ad insegnare materie umanistiche sempre in scuole del suo ordine religioso, prima a Firenze e poi a Mondovì; in questa cittadina piemontese, si distinse come predicatore, nonostante non fosse ancora ordinato sacerdote, e si applicò allo studio del greco.
Nel 1567, iniziò a studiare in modo sistematico teologia a Padova, dove approfondì in particolare l’opera di san Tommaso d’Aquino.
Dopo aver visitato Genova per un incontro di gesuiti, avendo dimostrato ottime qualità di predicatore, fu inviato nel 1569 da Francesco Borgia, (bisnipote di Papa Borgia Alessandro VI!) preposito generale dell’ordine dei gesuiti, a Lovanio nelle Fiandre, allora facente parte dei Paesi Bassi spagnoli; qui aveva sede una delle migliori università cattoliche e il giovane Bellarmino vi completò gli studi teologici, trovando inoltre l’ambiente adatto per acquisire una notevole conoscenza sulle eresie più importanti del suo tempo.
Insegnante e predicatore capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti, gli fu conferito l’insegnamento della teologia a Lovanio, e qui rimase per sei anni, fino al 1576, distinguendosi per l’eloquenza e per la capacità di controbattere le tesi calviniste, che si diffondevano ampiamente nei Paesi Bassi spagnoli.
Venne quindi richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di “controversie” (apologetica),da poco istituita nel Collegio romano, visto che da poco tempo si era concluso il concilio di Trento e la Chiesa cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di rinsaldare e confermare la propria identità culturale e spirituale.
L’attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico della Controriforma. E i suoi studi furono al centro delle cattedre in tutto il Nord Europa, con le quali inutilmente la Chiesa cattolica, non comprendendo né la fase storica, né le ragioni profondissime di questo enorme distacco di intere nazioni che si apprestavano a divenire, loro! da qui in poi, le protagoniste della storia, tentando di fornire una replica dottrinale allo strappo protestante!
La sua azione a difesa della fede cattolica, gli valse addirittura! l’appellativo di “martello degli eretici“.
Inviato in Francia, per difendere la Chiesa cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti, per poco il “martello” non rischiò una sorte simile ai suoi avversari e buon per lui che il papa Sisto V morì per un’epidemia (e pochi giorni dopo il suo successore Urbano VII!) quando aveva deciso di mettere un suo libro all’Indice, perché non faceva discendere direttamente da Dio il potere temporale sui territori della Chiesa!!
Ritornato in grazia a Roma, Bellarmino riprese nuovamente il suo lavoro come insegnante e padre spirituale, guidò negli ultimi anni della sua vita san Luigi Gonzaga, che morì appena ventitreenne al Collegio romano nel 1591 dopo aver contratto un male per salvare un uomo affetto da peste ed abbandonato per strada. Bellarmino assistette il giovane fino al trapasso e negli anni successivi ne promosse il processo di beatificazione presso la Santa Sede e volle la sua tomba vicina a quella del santo.
In questo periodo fece parte della commissione finale per la revisione del testo della Vulgata, richiesta del concilio di Trento per controbattere le tesi protestanti.
Dopo il concilio i papi avevano portato l’opera quasi a realizzazione completa.
Papa Sisto V, non dotato di competenze specifiche in materia biblica, aveva tuttavia introdotto delle modifiche con evidenti errori e per accelerare i tempi aveva comunque fatto stampare questa edizione, che fu in parte anche distribuita, con il proposito di imporne l’uso con una sua bolla. Dopo la sua morte, tuttavia, prima della promulgazione ufficiale, i suoi immediati successori procedettero a togliere dalla circolazione l’edizione errata per sostituirla con una corretta.
Il problema consisteva nell’introdurre un’edizione più corretta senza però screditare il nome di Sisto V. Bellarmino propose che la nuova edizione dovesse portare sempre il nome di Sisto V, con una spiegazione introduttiva secondo la quale, a motivo di alcuni errori tipografici o di altro genere, lo stesso papa Sisto aveva deciso che l’opera dovesse essere emendata!! E così fece sconfessare la suo opera al papa deceduto che avrebbe voluto sconfessare la sua!!
Lo stesso, nuovo, pontefice Clemente VIII, si trovò pienamente d’accordo con tale risoluzione, e concesse il suo “imprimatur” alla prefazione del Bellarmino nella nuova edizione!
Rettore del Collegio romano, poi preposito dell’ordine gesuita a Napoli e a Capua (in verità per allontanarlo da Roma, per la disputa feroce tra i tomisti, domenicani, e i molinisti,(dal padre gesuita Luis de Molina) con i quali si era schierato Bellarmino che riguardava la natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni, si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti. I primi accusavano di eresia calvinista i tomisti, nel senso che finivano per negare la libertà umana e credere nella predestinazione, mentre questi ultimi accusavano di eresia pelagiana i molinisti, di nuovo a Roma, come consultore teologo, oltre che “esaminatore per la nomina dei vescovi”, “consultore del Sant’Uffizio” e teologo della sacra penitenzieria! nel concistoro del 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale:
“il gesuita vestito di rosso“, in relazione all’abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti.
Nonostante questa nomina, egli non cambiò il suo austero e sobrio stile di vita, e tutte le sue rendite e gli introiti economici conseguenti alla sua nomina e alle sue attività furono massimamente devolute per i poveri.
Il papa lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo metropolita di Capua, e proprio a lui si deve la fondazione del seminario di Capua, uno dei primi dopo la riforma tridentina che li aveva istituiti.
Nel marzo del 1605 Clemente VIII morì e gli succedettero prima Leone XI, che regnò per solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest’ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali.
Il nuovo papa Paolo V, eletto con l’accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenerlo con sé a Roma, e il cardinale chiese di essere dunque esonerato dal ministero episcopale a Capua. Fu nominato membro del Sant’Uffizioe di altre congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione.
Il caso Giordano Bruno
Il caso di Giordano Bruno, filosofo e frate domenicano condannato al rogo per eresia, fu un evento che scaturì dalla dura reazione controriformista ai tentativi di modificare i temi della fede religiosa iniziati alcuni decenni prima con la riforma protestante.
L’istruzione dell’inchiesta e del processo ebbe luogo nel 1593 e la sentenza fu emessa nel 1600: coinvolse Bellarmino dal 1597, da quando cioè fu nominato consultore del Sant’Uffizio. Il Bellarmino ebbe alcuni colloqui con il frate domenicano, durante i quali tentò di fargli abiurare le molte tesi considerate eretiche, nel probabile tentativo di salvargli la vita, poiché la condanna per eresia era inevitabilmente capitale.
Durante il processo la Congregazione fece esaminare da Bellarmino una dichiarazione di Giordano Bruno su otto proposizioni che gli erano state contestate come eretiche. Il 24 agosto 1599 il cardinale Bellarmino riferì alla Congregazione che, nello scritto, Giordano Bruno aveva ammesso come eretiche sei delle otto proposizioni, mentre sulle altre due la sua posizione non appariva chiara. La completa ammissione gli avrebbe risparmiato la condanna a morte, ma alla fine Giordano Bruno preferì mantenere le precedenti posizioni decidendo di affrontare la pena.
Il caso Galileo Galilei
Galilei ebbe due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l’altro nel 1633.
I processi ebbero luogo fondamentalmente poiché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi. Infatti, sostenendo che il Sole fosse fisso al centro dell’universo si smentivano alcune frasi contenute nella Bibbia, per esempio “Dio fermò il sole” (Giosuè 10,12), o alcune teorie sostenute dalla Chiesa secondo cui la terra è immobile al centro dell’universo. La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l’infallibilità della Bibbia comprendesse anche il significato letterale, non solo quello simbolico. Bellarmino fu coinvolto solo nel primo processo, poiché nel secondo, quando Galilei fu condannato al carcere, egli era deceduto. I documenti oggi in nostro possesso mostrano che il cardinale Bellarmino ebbe rapporti cordiali, se non amichevoli, con lo scienziato, sia epistolari che diretti, anche dopo la denuncia di Tommaso Caccini davanti al Sant’Uffizio nel 1615.
Durante la prima inchiesta su Galilei, nell’anno 1616, il Santo Uffizio prese in esame la teoria eliocentrica. In tale occasione, fu ascoltato lo stesso Galilei, che si presentò a Roma ed ebbe colloqui diretti anche con il papa Paolo V. Questi, sempre in relazione alla frase contenuta in Giosuè, 10, 12, invitò il cardinale Bellarmino a dissuadere il Galilei dall’insegnare le due tesi principali sull’eliocentrismo. Sulla teoria copernicana, il Santo Uffizio si espresse in modo definitivo nel marzo 1616, condannandola come falsa e formalmente eretica, pur lasciando la possibilità di fare riferimento ad essa come semplice modello matematico.
Il cardinale Bellarmino, almeno in linea di principio, aveva espresso una posizione aperta nei confronti dello scienziato, pur senza mai rinnegare i pronunciamenti del Santo Uffizio, in particolare non ammettendo eccezioni all’inerranza della Bibbia, nemmeno nel senso letterale della scrittura. Tale posizione è espressa in una lettera inviata il 12 aprile 1615 a padre Paolo Antonio Foscarini, cattolico sostenitore dell’eliocentrismo ed amico di Galilei, nella quale il Bellarmino sosteneva di non poter escludere a priori l’attendibilità della teoria eliocentrica, ma induceva nel contempo alla prudenza, suggerendo di proporla come descrizione fisica solo dopo che se ne avesse avuta la prova concreta e definitiva. Inoltre poco dopo la condanna dell’eliocentrismo presso il Santo Uffizio del 1616, Galilei chiese ed ottenne un colloquio privato con il cardinale Bellarmino.
Il 24 maggio 1616 il cardinale Bellarmino firmò su richiesta dello stesso Galilei una dichiarazione nella quale si affermava che non gli era stata impartita nessuna penitenza o abiura per aver difeso la tesi eliocentrica, ma solo una denuncia all’Indice. Questa dichiarazione fu poi falsificata ad arte da un grande nemico di Galilei, padre Seguri, che divulgò un verbale apocrifo in cui Bellarmino ammoniva Galilei, pena il carcere, di non insistere nella difesa della tesi eliocentrica. Questo falso documento fu poi utilizzato anni dopo nel secondo processo contro Galilei, quando il cardinale Bellarmino, ormai morto, non poteva più testimoniare in favore di Galilei e smentire la veridicità di tale verbale.