I produttori dei Presìdi Slow Food alla Cop26: «Non possiamo demandare tutto agli individui»
L’appello dei produttori dei Presìdi Slow Food ai decisori riuniti a Glasgow: «Servono azioni coordinate e globali, ora».
Nonostante la forza, l’energia e la vitalità dei produttori con cui abbiamo l’onore di lavorare, il racconto che leggerete non vi rallegrerà. Manteniamo con loro un costante contatto, e purtroppo nelle chiamate di fine raccolto, quando ci interessiamo alla produzione dell’anno, non abbiamo ricevuto belle notizie.
In tutta Italia eventi climatici inusuali hanno messo a dura prova i contadini. Non parliamo solo delle zone colpite dai disastrosi incendi. C’è chi non ha raccolto nulla a causa della siccità, della grandine, delle gelate tardive. Il loro racconto commosso ci ha spinto quest’anno a riportarvi alcune di queste testimonianze, come rappresentanza del settore forse più colpito da questa crisi ambientale e climatica.
E non c’è stato nemmeno bisogno di chiedere loro che cosa ne pensassero del grande incontro di Glasgow. Hanno tutte e tutti le idee molto chiare in proposito: è tempo di limitare le parole e agire.
«Il mondo è dei giovani. Siamo qui per loro, non per noi. Basta mettere sempre l’economia davanti a tutto!»
Silvana Crespi De Carolis, produttrice di roveja Presidio Slow Food a Civita di Cascia (Pg)
«Era l’Africa qui, non era Civita. E il dramma non è finito, la terra è ancora spaccata». Silvana Crespi De Carolis è una contadina, così come lo è la sua famiglia da generazioni. Vive e lavora a Civita, 1200 m slm, nel comune di Cascia, in provincia di Perugia. Rigidi e lunghi inverni, primavere tardive e brevi estati. «Un ambiente difficile ma libero e unico. Una sfida viverci», una sfida che sta diventando impossibile.
Non c’è più acqua
«Dopo una lunga e siccitosa estate (fino a giovedì 4 novembre, ndr) non c’è stato nessun periodo di pioggia che potesse riequilibrare. Sarà piovuto un giorno, un paio di settimane fa.» Silvana non si perde d’animo, la sua energia passa attraverso il filo del telefono, ma oltre la sua forza, sentiamo il dramma di una comunità preoccupata: «Per la prima volta nella storia, che io ricordi, da giugno è necessario portare l’acqua al paese: la vena non ne raccoglie a sufficienza. Il Comune di Cascia governa trentasei paesini: a più della metà oggi si porta l’acqua. Le conseguenze non riguardano solo l’agricoltura, ma anche la vita delle persone».

E la produzione? «Non c’è stata pioggia, non c’è stata crescita, la roveja era erba secca, il farro rachitico», racconta Silvana amareggiata: «Si sono dati come obiettivo il 2050, per me non capiscono niente. Sappiamo da dove viene il danno maggiore, si sa come si può fare» e rivolta ai decisori politici esorta: «Basta mettere sempre l’economia davanti a tutto! Non è possibile, non hanno figli, non hanno nipoti? Si parlava di piantare un miliardo di alberi, ma questa azione non è stata confermata. Si fanno solo chiacchiere, tra loro e danno poca voce ai giovani. Possibile che non ci siano rappresentati giovani alla Cop? Siamo qui per loro, non stiamo qui per noi». Silvana ha preferito non fotografare il disastroso raccolto di questa estate e si interroga sul futuro del nostro pianeta: «Noi siamo fortunati che abbiamo visto il mondo bello, a colori. I miei nipoti se lo ricorderanno a mala pena. Temo un mondo tutto marrone».
«Rispettiamo l’ambiente, gli agricoltori sanno cosa voglia dire voler bene la terra. Eppure siamo i più colpiti»
Sabato Abagnale, produttore degli antichi pomodori di Napoli. Sant’Antonio Abate (Na)
«Non avevamo bisogno di niente. Vivere nella Campania Felix voleva dire essere baciati dal clima, avere una terra ricca, perfetta per l’agricoltura. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: la temperatura. Si è alzata almeno di due gradi». Questa la percezione di Sabato Abagnale, storico produttore di pomodori antichi di Napoli. «Prima è arrivata addosso la tuta absoluta – un parassita che si mangia i pomodori dall’interno. Per difenderci abbiamo spostato la coltivazione in collina, dove abbiamo trovato un clima più fresco. Poi quest’anno è successo qualcosa che in 25 anni di lavoro non avevo mai visto: il 25 agosto per 15 minuti di puro terrore ci sono piovuti addosso chicchi di grandine grossi come uova». Come potete immaginare, il giorno successivo il raccolto era distrutto: «non siamo riusciti a raccogliere nemmeno un chilo di pomodoro. La stessa cosa possiamo dire di viti e olive».
«Dal clima non sappiamo come difenderci»
Per un contadino, gli eventi atmosferici sono parte della vita e del lavoro, ma questa volta alla normale ansia si aggiunge qualcosa in più: «Abbiamo paura che non sia un caso. E che questo fenomeno inconsueto si ripeta. L’abbiamo spuntata con i parassiti, ma da questa grandine non sappiamo come difenderci». Intanto il danno per quest’anno è ingente: «Siamo fermi, non abbiamo pomodori, non abbiamo uva, non abbiamo olive. Andiamo avanti con la produzione di cavolo foglia verde perché l’abbiamo piantato in ritardo. Ma il nostro guadagno arriva dai pomodori, dall’olio, dalle olive. Il lavoro di un anno». E vi assicuro, che nonostante questo disastro, Sabato mantiene la sua energia, la sua voglia di fare. E chiede un riscontro: «Non ho un appello, non so che possano fare per noi. So solo che non possiamo continuare così, noi contadini saremo costretti a cambiare mestiere». Una situazione ingiusta perché: «Non siamo noi i distruttori. Gli agricoltori non creano i grandi problemi all’ambiente, sappiamo che cosa vuol dire voler bene la terra. Ma siamo i più colpiti».
«Più ricerca per l’agricoltura ecologica. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti»
Paola Jori, produttirce di monocultivar casaliva ex albis olivis biologico. Nel Presidio Slow Food dell’extravergine Italiano.
«Non abbiamo raccolto niente.» Paola Jori coltiva l’ulivo in una azienda a conduzione familiare nell’Alto Garda, un territorio felice per la produzione dell’extravergine. «Certo, l’Alto Garda è un puntino, nell’equilibrio mondiale può forse influire pochissimo. Però sono 50 anni che la famiglia di mio marito coltiva l’olio. Ma è la prima volta che vive una situazione del genere.»
Un anno da dimenticare
Dopo un anno di lavoro, perdere tutto è davvero frustrante, e il fatto di essere in compagnia non migliora certo la situazione: «Ha colpito tutti i produttori, non ci spieghiamo perché. L’olivo ha un anno di grossa produzione e un anno di pausa dove si riprende. Questo doveva essere un anno di calo produttivo. Ma calo non vuol dire zero produzione. Hanno aperto due frantoi ma chiuderanno in un mese». Eppure qualcosa è successo: «Durante la bellissima fioritura è venuta una gelata. Poi siamo stati attaccati dai parassiti, e poi soggetti a sbalzi climatici: a giugno caldo torrido, luglio piovoso e poi tre grandinate nel giro di due settimane in mezzo all’estate che hanno dato il colpo finale. La mia zona, in altura, non è mai stata soggetta a grandinate. Non è il nostro clima!».
Le assicurazioni non risolvono il problema
Al momento la soluzione avanzata, non soddisfa certo le aspettative di Paola: «Dicono che dobbiamo assicurarci. Ma non si lavora per un anno per avere un risarcimento». Non solo, molti agricoltori che scelgono di non usare fitofarmaci, sono oggi messi a dura prova: «Aumentano gli insetti patogeni e invece gli insetti buoni no, anzi, spariscono, come le api. La nostra lotta biologica si fa sempre più difficile. E anche chi fa agricoltura convenzionale è costretto a elaborare nuovi veleni per combattere diversi parassiti. Noi che facciamo bio non abbiamo gli strumenti sufficienti per combattere queste nuove difficoltà. Bisognerebbe che la ricerca si dirigesse in questo senso, aiutare chi sceglie il bio: un accesso più equo alle certificazioni sarebbe auspicabile. Non si può pretendere di demandare unicamente all’individuo la responsabilità di comportamenti sostenibili. Abbiamo bisogno di azioni globali che sostengano l’impegno di individuale. A partire dalla riduzione spreco, la lotta alle monocoluture, all’uso dei pesticidi. Curare la salute dell’ecosistema deve diventare la prima voce nell’agenda dei governi».
«L’interesse dell’opinione pubblica non basta. Serve l’intervento del legislatore, altrimenti rimarranno solo gli slogan e le magliette»
Giacomo Prina, Apicoltore di Baceno (Vb). Presidio Slow Food dei mieli di alta montagna e presidente Associazione Produttori Apistici delle Vallate Ossolane.
«Gelate primaverili che mettono in difficoltà l’acacia, periodi siccitosi alternati a piogge intense. La natura sta

diventando ostile, le piante non hanno nettare e quando ce l’hanno piove e le api non possono uscire. La sensazione, terribile, è che non sia più l’eccezione. Ma la regola!»
Fare l’apicoltore è sempre più difficile, come ci racconta Giacomo Prina: «Per la generazione di mio padre era più facile fare miele, ora con il clima tutto è imprevedibile e complesso, specialmente nelle nostre zone di montagna. E in più dobbiamo fare i conti con l’inquinamento da pesticidi e le malattie che rendono vulnerabili le api».
C’è sempre meno miele
Tanto che oggi si festeggia quando si riesce a fare 30 chili annui di miele per arnia. Qualche anno fa 30 chili per arnia era considerato il minimo. Quest’anno le produzioni sono state notevolmente inferiori. Lo sappiamo: non si tratta solo di miele, ma del fatto che le api sono le sentinelle dell’ambiente, dagli impollinatori dipende la biodiversità e la ricchezza della nostra alimentazione: «Noi apicoltori siamo i più esposti, il primo anello tra natura e uomo a saltare. Ci sentiamo in prima linea, ma “la guerra” la stiamo combattendo ora. Sentire parlare del 2050 ci fa arrabbiare, e ci preoccupa soprattutto. Bisogna intervenire subito». Un mantra che si ripete.
Più tutele per chi si prende cura delle api
«Certo, ci fa piacere che l’ape sia diventata un simbolo della crisi ambientale. Ma non basta, ci vuole il legislatore che faccia qualcosa sia per il clima sia per l’inquinamento. Altrimenti rimarranno solo gli slogan e le magliette.» A partire anche dalle piccole cose, dai provvedimenti legislativi che influiscono sul quotidiano: «Le norme che regolano l’agricoltura devono essere condivise anche con il comparto apistico. Ad esempio ci sono molti bandi ma spesso l’apicoltura non viene contemplata come merita e si cerca sempre di incastrala in adempimenti generici. Si sono fatti i bandi per le gelate primaverili, ma per un apicolture era molto difficile accedere perché rispondiamo a logiche diverse non contemplate nei requisiti. Nonostante l’interesse della opinione pubblica, l’apicoltura è ancora considerata come la sorella minore. Per il ruolo ambientale che ricopre e per i numerosi imprenditori e hobbisti che si prendono cura delle api, si chiede semplicemente pari dignità e rispetto».
A cura di Michela Marchi
m.marchi@slowfood.it