La civiltà umana si è sempre confrontata con le epidemie.

Ludovico Muratori ha perfino scritto nel 1714 un trattato titolato “Del governo della peste e delle maniere di guardarsene”, pubblicato a Modena e successivamente a Napoli.

Nel trattato, diviso in tre libri (governo politico, governo medico, governo ecclesiastico), il problema della peste, definita da Muratori “uno de’ più terribili Mali che possano affliggere il genere umano”, veniva affrontato in diversi aspetti e non mancava l’esposizione di soluzioni per contenerne il dilagare.

Viene avanzata l’ipotesi che non si tratti di un’epidemia come tutte le altre ma che abbia un carattere di stabilità: “… mantenendosi in giro pel Mondo, e passando d’uno in altro paese, e tornandovi dopo molti o pochi anni, secondo che la negligenza de gli uomini, la disposizione de’ corpi, o altre circostanze le aprano la porta ” .

Muratori non può esimersi dal ricordare la terribile pandemia passata alla storia come la Peste Nera: “si partì questa nell’anno 1346 dalla Cina, che anche allora era conosciuta, e s’andò avanzando per le Indie Orientali sono alla Soria, e Turchia, all’Egitto, alla Grecia, all’Affrica. Alcune navi di Cristiani partite di Levante nel 1347 la portarono in Sicilia, Pisa, Genova. Nel 1348 giunse a infettar tutta l’Italia, salvo che Milano, e certi paesi vicini all’Alpi…”.

Successivamente la peste arrivò in Provenza, in Borgogna, in Catalogna e quindi in tutta Europa.

Anche ai tempi di Muratori la prevenzione, ovvero il rimanere lontano dalle occasioni di contagio, era tenuta in grande considerazione, pur comportando non poche difficoltà: “il solo dover tenersi rinchiuso per settimane, o per mesi in casa (e tanto più se per ordine del Magistrato) è una penosissima prigionia, aggiunti tanti bisogni, che occorrono…”.

Nel trattato vengono ricordate le epidemie che colpirono Milano nel 1576 e nel 1630. Morirono migliaia di persone e poiché l’epidemia non accennava a diminuire vennero prese misure severissime: “… altro rimedio non si trovò per vederne il fine che quello di metter in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta dì, tutto il Popolo sì nobile, come ignobile… “.

Come suggerito da Muratori, è auspicabile anche ridurre il numero delle persone residenti nelle città. Prima di tutto devono essere messi al bando “birbanti, vagabondi, cingani, questuanti, lebbrosi, impiagati”. Quindi deve essere permesso, almeno a coloro che ne hanno materiale possibilità, di ritirarsi nelle campagne: “hanno i Principi e Magistrati da permettere, che tutti i Cittadini, a’ quali non manchi la comodità di farlo, si ritirino alle loro ville, e al largo della campagna…”.

Eccezione deve essere fatta per tutti coloro che svolgono attività riferibili all’amministrazione pubblica oppure aventi finalità generali, come magistrati, medici, parroci, cerusici e notai. In particolare i Magistrati devono prendere tutte le precauzioni possibili per scongiurare il contagio: “che i Magistrati conservino ben se stessi per poter conservare gli altri. Perciò sia lor cura di far circondare la casa, dove abitano, o si adunano, con rastelli di legno, a’ quali niuno possa avvicinarsi, se non in lontananza di quindici passi… Uscendo di casa, vadano a cavallo, o in seggeta; parlino alle guardie, e all’altre persone, solamente da lontano”.

Il secondo libro del trattato viene dedicato all’esposizione dei vari rimedi contro la peste. L’inventario risulta incredibilmente vasto: unguenti, profumi, soluzioni alcoliche e perfino amuleti.

Alcuni, e massimamente in Germania, esaltano, e danno per un presevativo maraviglioso, il portare in tempi di contagio sospeso al collo un rospo seccato, o bruciato, e ridotto in cenere, e chiuso in un sacchetto”.

Un rimedio non molto scientifico sul quale lo stesso Muratori nutre qualche dubbio: io per me non oserei affatto riprovare l’uso di quelli pretesi rimedi; ma dirò bene che non saprei fidarmene molto”.

Certamente più vicino alla nostra sensibilità moderna appare l’invito a non lasciarsi sopraffare dallo sconforto ed affrontare con serenità la difficile prova: “… le gagliarde passioni dell’animo, regnando il contagio, possono chiamarsi i primi beccamorti dell’Uomo. Gridano qui ad una voce tutti i medici, che specialmente la collera, la malinconia, e il terrore s’hanno a fuggire, come la Peste medesima, e doverli in loro vece dar luogo all’intrepidezza, ilarità, e quiete dell’animo… Ferita l’immaginazione, e messi in disordinato moto gli spiriti e gli umori da qualche spaventoso spettacolo, troppo agevolmente si prende il veleno pestilenziale, ed anche senza Peste si muore talvolta di pura costernazione, ed umor nero. Per lo contrario le osservazioni fatte ci assicurano, che i coraggiosi, gl’intrepidi, ed allegri sono men soggetti all’infezione… ”.

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