Alle origini della pizza napoletana

Alle origini della pizza napoletana

Alle origini della pizza napoletana

ieri 17 gennaio, ricorre il World Pizza Day, la giornata in cui si celebra uno dei cibi più rappresentativi del patrimonio enogastronomico italiano e più popolari in assoluto. Un prodotto nato per sfamare le classi meno agiate, capace di affermarsi ovunque e che nell’ultimo decennio è stato protagonista di uno straordinario rinnovamento: farina e impasti, materie prime e tecniche di lavorazione sono stati oggetti di studio. Per capire le ragioni di questo successo, è importante indagarne origine ed evoluzione. Lo fa egregiamente, tra indagine storica, curiosità antropologiche, stampe e documenti di archivio, un volume che è appena tornato sugli scaffali delle librerie in un’edizione integralmente rivista e arricchita da nuovi contenuti. Si tratta di Pizza. Una storia napoletana di Donatella e Antonio Mattozzi, appartenenti a una dinastia di pizzaioli, attivi da quasi 170 anni. Un libro che ci restituisce fedelmente l’atmosfera della Napoli di quel tempo (le condizioni di vita, la composizione sociale, gli antichi mestieri…): la storia della pizza, infatti, si lega a filo doppio con quella della città partenopea, con cui condivide gioia e dolori.

La data precisa in cui fu aperta la prima pizzeria a Napoli non è nota, né si sa quando il primo pizzaiuolo fu chiamato con questo nome specifico. La loro comparsa rientra infatti in quei fenomeni sociali e di costume che sfuggono alla registrazione dei cronisti e vengono rilevati e osservati solo quando sono già maturi. Sicuramente altri tipi di pizza si producevano già prima del Settecento, ma doveva trattarsi di focacce preparate nelle taverne o nei forni da pane con ingredienti diversi, cotte in teglie o fritte in padelle. Il mestiere vero e proprio, che aveva bisogno di locali particolari e doveva essere esercitato da personale specializzato, nacque soltanto verso la metà di quel secolo. Una prova di questa collocazione temporale è data dal fatto che tra le centinaia di corporazioni di arti e mestieri esistenti a Napoli, anche dei più umili – bazzareoti, becchini, stallieri, maccaronari, frittori di pesce, franfelliccari, ogliarari di otre in collo (venditori ambulanti di olio), trippaiuoli…, per citarne solo alcuni – non si ritrova mai quella dei pizzaiuoli.

Credit: Davide Gallizio

Se per pizza intendiamo un qualunque impasto di acqua e farina di forma schiacciata, per indagarne le origini bisognerà andare molto indietro nel tempo (la parola stessa è antichissima e compare per la prima volta nel 997, quindi nell’alto Medioevo). Ma se si parla di pizza napoletana, al centro della trattazione dei Mattozzi, allora il discorso cambia e ci conduce alla metà del Settecento in una delle tante taverne (alcune dotate anche di forno) sparse per la città, dove si sperimentavano un nuovo gusto e una nuova veste per la plurisecolare focaccia che ormai aveva fatto il suo tempo. E perché proprio Napoli è il centro di questa storia? I due autori lo spiegano rifacendosi al libro Il ventre di Napoli (1884) di Matilde Serao: nella città partenopea si concentravano molti fattori che hanno fatto sì che qui nascesse e si diffondesse questo miracolo del gusto.

Infatti proprio il carattere popolare che permise lo sviluppo di un fenomeno che poteva crescere e radicarsi solo in una città che era in Europa quella a più alta densità abitativa e la cui popolazione soffriva di alti tassi di precarietà, quando non di totale povertà. I cronisti del tempo sono concordi nel sottolineare che la “plebe” napoletana amava poco cucinare e preferiva spendere i suoi miseri guadagni in qualche bettola o presso le centinaia di venditori ambulanti di commestibili che affollavano la città, ma dimenticano di notare che questa gente doveva affrontare quotidianamente il problema non solo del cibo, ma anche del modo di cucinarlo, perché la quasi totalità dei “bassi” nei vicoli o delle abitazioni nei “fondaci” erano prive non solo dei servizi igienici ma anche del vano cucina, che veniva sostituito talvolta da una “fornacella” (piccolo focolare di ghisa), poggiata su mattoni piazzati, naturalmente, sulla strada. (…) Naturalmente alla precarietà abitativa corrispondeva una difficoltà nel procacciarsi il cibo che era in parte risolta con l’acquisto di alimenti a basso costo – spesso avariati o di pessima qualità – ma soprattutto ricorrendo a prodotti locali di facile reperimento, come frutta e verdura, o a cibi cotti di varia natura, come interiora di animali, e come tutto quel pescato del golfo, senza pregio, che rimaneva impgigliato nelle reti. E ancora alici o polpi e altre vivande varie tra le quali, oltre ai maccheroni, spiccava, per l’eccellente gusto e per la grande capacità di riempire lo stomaco e calmare i morsi della fame, proprio la pizza. E infatti ancora ai tempi della Serao la pizza, o semplicemente una sua fetta, costituiva il pranzo o la cena di molti napoletani. Salvatore Di Giacomo, in una delle sue cronache giornalistiche racconta di una famigliola bisognosa che si era accordata con un pizzaiuolo il quale, in cambio di una misera moneta, faceva trovare loro, ogni sera, i “cornicioni” che gli avventori avevano lasciato durante il giorno e che costituivano la “lauta” cena delle famiglia. La pizza è citata tra i “cibi dei poveri” anche da quei medici e igienisti napoletani – Achille Spatuzzi ed Errico De Renzi, per citarne solo qualcuno – che, prima e dopo l’Unità d’Italia, cominciarono a interessarsi dell’alimentazione delle classi inferiori della popolazione napoletana. Il successo della pizza a Napoli si deve dunque, oltre che alla semplicità della sua preparazione e alla gustosità del suo sapore, alla povertà, alla moltitudine e alla densità della popolazione.

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